Poco più di 2 anni fa, Vittorio Arrigoni ci ricordava come a Gaza solo i morti avessero visto la fine della guerra.
Lo stesso non si può dire però per quei 304 morti circa trattenuti da Israele nei propri obitori, con l’assurdo pretesto che anche da morti debbano scontare per intero la pena commutata loro da un giudice.
Dopo averci calorosamente accolto in casa sua, Ahmet – il nome è di fantasia per la sua sicurezza – ci narra di come stia ancora aspettando il corpo di suo fratello,Anwar, morto nel lontano 1971 ma ancora senza pace.
Insieme ad altri 304 corpi, suo fratello Anwar si trova a Jericho,dove la burocrazia israeliana attentamente conserva e trasforma in numeri essere umani la cui colpa è quella di non aver accettato il destino loro imposto.
Ahmet ci spiega come i funzionari dello stato sionista abbiano preparato con meticolosa programmazione un sistema che consenta solo a loro l’identificazione di chi si trova in loro custodia. Capita così che ai parenti venga negato il legittimo diritto di piangere i propri cari sia in casa che nei luoghi ove essi vengono trattenuti. Come un Caronte ingiusto e diabolico, Israele nega a molte persone il più basilare e il più umano dei diritti: quello della sepoltura.
In questo modo – ci conferma Ahmet – il dolore per chi rimane in vita non avrà fine, in questo modo – ci assicura nuovamente – i suoi genitori sono morti senza vedere loro figlio seppellitto. E un’ulteriore conferma della crudeltà della spiegazione ci viene data invece da Sharif, che insieme ad un associazione che si batte per il rispetto e la determinazione
dei diritti umani e che sta per intentare una causa all’alta corte di giustizia, ci racconta di come poco meno di un mese fa Israele abbia rifiutato di restituire 84 corpi dopo averlo annunciato a mezzo stampa. Nella trattativa è implicato il caporale israeliano rapito a Gaza nel 2006, Gilad Shalit, che evidentemente Israele non ha alcuna intenzione di provare a liberare. A questo si aggiunge l’onta di non poter parlare pubblicamente per lungo tempo della morte Anwar, perchè qualora le autorità occupanti ne fossero venute a conoscenza, Ahmed e la sua famiglia avrebbero avuto la casa distrutta. Vige infatti una legge che ordina la demolizione delle abitazione di chi – parente od amico-
abbia ospitato o semplicemente abbia qualche legamente con persone che facciano parte della resistenza Palestinese.
Ma la situazione non migliora certo in altre situazioni. Ahmed ha perso un altro fratello nell’assedio e massacro israeliano di Jenin, nel 2002. Allora i blindati israeliani, impegnati e guidati dall’allora primo
ministro Ariel Sharon nell’operazione “scudo difensivo”, rasero al suolo l’intero campo profughi di Jenin.
Di quel massacro vi abbiamo già parlato l’anno scorso. Fra quei morti vi fu anche Wasji, un altro fratello di Hamet. Seppellito sotto la propria abitazione dai caterpillar israeliani, ci volle più di una settimana perchè il corpo potesse essere recuperato. Solo allora e solo furtivamente i suoi cari riuscirono ad assicurare almeno a lui quello che è considerato in tutto il mondo il più fondamentale e il più
umano dei diritti: quello a vedere la fine della guerra almeno da morti.
Esempi di una repressione continua, programmata e incessante pensata per annientare psicologicamente qualsiasi forma di resistenza. Che esse sia non violenta o violenta, agita o solamente pensata. Esempi di repressione che in forme diverse ma non meno brutali e disumane hanno toccato anche noi, in casa nostra, a Genova. Allora, avemmo l’esempio di come la repressione sistematica
sia l’unica lingua ad essere universale ai diversi governi del mondo. Che si tratti di Benyamin Netanyahu o di Silvio Berlusconi poco cambia: il messaggio è che lottare e lavorare per un mondo migliore è proibito. Il messaggio è che priorità è il profitto, la speculazione il mercato e le sue perversioni.
Ma oggi come allora,c’è chi si oppone e chi ancora crede nella speranza che un mondo giusto e libero per tutti sia possibili. Troppo lunga sarebbe la lista di chi non ha gettato la spugna e continua a lottare,
ma ci piace finire questo report con 2 parole che più di ogni altra frase o concetto esprimono le speranze di allora e la forza e la resistenza che oggi giorno persone come Ahmet trovano dentro di sè.
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