Fayez T. pensava probabilmente che una volta diventato adulto avrebbe continuato quello che da generazioni era la vocazione della sua famiglia. Fayez possiede infatti un buon appezzamento di terra nei pressi di Tulkarem, nel nord dei Territori Palestinesi Occupati da Israele nel 1967, che da generazioni viene coltivato con le più svariate varietà di ortaggi e frutta: dal timo al prezzemolo, dai pomodori alle pesche e molto altro. Coltivazioni che da tempo lontano consentivano a lui e la sua famiglia una vita dignitosa, vissuta in completa armonia e simbioso con la terra che tanto amavano e che tanto continuava a donare loro. Fayez ci racconta di come ora il suo lavoro sia diventato prevalentemente quello dell’attivista, impegnato giorno e notte nella documentazione dell’occupazione che lui, come tutto il popolo Palestinese, vive quotidianamente sulla propria pelle. I campi di Fayez infatti, hanno subito e subiscono tutt’ora le pensati conseguenze del muro di “separazione”, progettato e voluto da Israele ben dentro la linea verde del 1967. Persone come Fayez e molti altri contadini nella zona fra Nablus e Qalqylia, hanno visto infatti confiscarsi le terre per non meglio precisati motivi di “sicurezza”. Sicurezza che non ha impedito allo stato israeliano, per?, di consentire la costruzione della “Flower of Peace”. Nome ossimorico, dato che la fabbrica in questione è stata mossa da Israele nel distretto di Tulkarem, dopo che era stata costretta alla chiusura perchè troppo inquinante. Troppo inquinante secondo gli standard applicati nei propri confini, troppo poco per quelli applicati nei Territori. Fayez ci racconta di come questa industria, che si incastona nelle sue coltivazioni come fa un diamante al centro di un anello, sia di fatto zona militare invalicabile a chi sprovvisto di permesso e di come a volte i soldati posti a sua difesa si divertino ad improvvisare poligoni di tiro dei sui campi. Fatti di cui siamo testimoni pressochè tutte le sere, distando il nostro appartamento non più di qualche kilometro dall’ingresso alla fabbrica. Fayez ci racconta di come in passato fosse abitudine trovare le sue terre inondante dall’acqua di scarico proveniente dalle macchine, e di come questo abbia danneggiato interi raccolti e compromesso irremediabilmente il terreno, ci racconta di come durante i giorni più duri dell’intifada l’accesso alle sue coltivazioni gli fosse proibito e di come lui e la sua famiglia – affamati per le precarie situazioni di vita allora ancora più forti – si recassero invano ogni giorno nelle proprie terre, per trovare qualcosa di commestibili. Il difficile per me – mi dice Fayez mentre scambiamo due parole all’ingresso della scuola in cui si sta svolgendo il summer camp “Vittorio Arrigoni” – è sopravvivere. Il difficle, continua, è non abbandonare le proprie terre e contemporaneamente pensare essere un attivista. Il difficile è procurarsi una fonte di sostentamento mensile, e resistere quotidianamente a tutte le forme che cercano in tutti i modi di fare in modo che questo non sia possibile. Il difficile, concludiamo noi, è restare umani.
Storie che, se confrontate con quelle di altri, fanno forse pensare ad un destino crudele ma non spietato. Crediamo invece che storie ed esistenze come queste siano rappresentative della quotidiana oppressione e occupazione vissuta dall’intero popolo palestinese. Storie che dimostrano come la pianificazione e la messa in atto di tecniche che quotidianamente violano i più basilari diritti umani sanciti da qualsiasi convenzione internazione, sia la realtà concreta con cui persone come Fayez e molti altri sono costretti a relazionarsi ogni giorno della loro esistenza.
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